CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA
NAZIONALE DELLA FEDE
ACCADEMIA DEI LINCEI
INDICE

L'APERTURA DEGLI ARCHIVI
DEL SANT'UFFIZIO ROMANO

EDOARDO VESENTINI

Riassunto

Illustri Ospiti, cari Consoci, Signore e Signori,
l'opportunità di dare il benvenuto a questa giornata di studio su L'apertura degli archivi del Sant'Uffizio Romano è un adempimento nient'affatto rituale, che va al di là dei doveri dell'ospitalità.

La collaborazione fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e l'Accademia Nazionale dei Lincei rappresenta - come è stato scritto - un evento di notevole rilevanza nella storia dei rapporti fra queste due istituzioni. Una storia che, nei quasi quattrocento anni che ci separano dalla fondazione dell'Accademia, ha attraversato periodi di grande intensità e di forti tensioni, fin dagli albori: fin da quando, agli inizi del 1604, a pochi mesi di distanza da quel 17 agosto 1603 al quale risale la fondazione dell'Accademia, il padre di Federico Cesi denunciò al Sant'Uffizio uno dei tre giovani che, insieme al figlio, l'avevano fondata. Seguì un periodo di silenzio - durato sei anni - nel quale Federico Cesi disegnò con chiarezza il progetto della sua Accademia, ove doveva essere garantita la "libertà di filosofare in naturalibus", con il fine "non solo di acquisire la conoscenza delle cose e la sapienza, vivendo rettamente e piamente, ma di diffonderle tra gli uomini con la voce e con gli scritti, pacificamente e senza recare danno alcuno".
"La storia non ammette risarcimenti né pentimenti né assoluzioni", ha scritto di recente Carlo Dionisotti. E ciò vale, a mio avviso, anche per questa giornata di studio, in cui vogliamo rivisitare alcuni aspetti di un periodo che ha segnato le vicende di quattro secoli, pronti a scoprire, con gli strumenti di indagine di cui disponiamo oggi, luci ed ombre inaspettate.

A queste alludeva Karl Popper, in un saggio di quarant'anni fa, ove citava il Cardinale Bellarmino il quale, in occasione della diffida del 1616 a Galileo, scriveva che "Galileo agirà prudentemente se parlerà ipoteticamente, ex suppositione (...): il dire che rendiamo conto delle apparenze, supponendo che la terra si muova e il sole sia in quiete, meglio di quanto possiamo fare usando le eccentriche e gli epicicli, è parlar propriamente: non c'è pericolo in questo, e questo è tutto ciò di cui il matematico ha bisogno. L'affermazione del Cardinale Bellarmino rifletteva, del resto, l'atteggiamento della Chiesa che considerava del tutto lecita l'utilizzazione del "modello copernicano" nei calcoli astronomici concreti: ad esempio, per la riforma del calendario gregoriano.
Atteggiamento in armonia con quanto scriveva Andrea Osiander nella sua prefazione al De revolutionibus di Copernico: "Non è affatto necessario che queste ipotesi siano vere, e neppure che siano verosimili: piuttosto è sufficiente una cosa sola: che diano luogo a calcoli che concordano con le osservazioni". Ciò non bastava a Galileo che, pur "prontissimo a mettere l'accento sulla superiorità del sistema copernicano come strumento di calcolo, (...) supponeva, ed addirittura credeva, che esso fosse una descrizione del mondo", attirando su questa convinzione la condanna della Chiesa. Ma ciò che non bastava a Galileo sembra bastare agli scienziati di oggi, per i quali, salvo alcune eccezioni (da Mach a Poincaré, a Einstein, a Schrödinger, ...), la concezione della fisica come puro studio di un modello, fondata da Osiander, dal Cardinale Bellarmino e - ancora più limpidamente - dal Vescovo Berkeley, è diventato, come osserva Popper, un dogma indiscusso, anche se essi "non si rendono conto di aver rotto con la tradizione galileiana".

Il processo e la condanna di Galileo sopraggiunsero quando, con la morte del suo fondatore, l'Accademia di Federico Cesi aveva già cessato di esistere, anche se Francesco Stelluti e Sebastiano dal Pozzo cercarono di mantenerne vivo il retaggio culturale. Rinacque, agli inizi del XIX secolo, come Accademia dei Nuovi Lincei, attraverso vicende complesse che misero a dura prova la "libertà di filosofare in naturalibus" che aveva ispirato l'Accademia di Federico Cesi, e che - su un altro versante - sono illustrate, ad esempio, dal fatto che la candidatura di Vincenzo Gioberti a socio, non incontrò l'approvazione papale. I rapporti fra i Nuovi Lincei e la Reale Accademia Nazionale dei Lincei, istituita, dopo il 1870, in Roma capitale d'Italia, furono inizialmente assai aspri e trovarono una composizione, dopo il Concordato del 1929, con il confluire dei Nuovi Lincei nella Pontificia Academia Scientiarum, fondata nel 1936. Da allora le relazioni fra le due istituzioni non si sono più interrotte.
Illustri porporati: Giovanni Mercati, Eugenio Tisserant, Jean Daniélou, sono stati nostri consoci, preceduti e seguiti da altri prelati.
Vito Volterra, Francesco Giordani e Beniamino Segre, presidenti della nostra Accademia, hanno fatto parte dell'Accademia Pontificia, presieduta oggi dal nostro consocio Nicola Cabibbo, preceduto in quella carica dai Soci Lincei Carlos Chagas e Giovanni Battista Marini Bettolo.

Poiché ho citato il nome di Vito Volterra, per concludere voglio ricordare che, quando, nel 1938, per decisione del Governo Fascista, la nostra Accademia - in una pagina oscura della sua storia - espulse trenta Soci ebrei, alcuni di questi continuarono a trovare ospitalità, per le loro pubblicazioni scientifiche, negli Acta e nelle Commentationes della Pontificia Academia Scientiarum. Due di essi, Tullio Levi-Civita e Vito Volterra, ne restarono soci, e l'ultimo lavoro di Volterra fu accolto negli Acta nel 1940, sei mesi prima della morte del suo autore.
Questi episodi appartengono alla nostra memoria, ai nostri archivi. La giornata di oggi sembra un'occasione appropriata per illuminarli.



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