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Introduzione
Lo spunto per questo saggio sul movimento degli "spirituali" alla vigilia del Concilio di Trento nasce dalla pubblicazione di un mazzetto di documenti piuttosto recentemente ritrovati. Nell'ordine: sei esili letterine scritte da Vittoria Colonna al cardinale Reginald Pole tra il giugno 1541 e il luglio del '46; due fogli allegati, fitti di sbrigative censure apposte da un teologo dell'Inquisizione qualche decennio più tardi; un resoconto della battaglia di Pavia inviato a Carlo V da Ferrante Francesco d'Avalos, sfortunato marito della Colonna (il marchese di Pescara morì a pochi mesi dal folgorante successo del febbraio 1525, con cui aveva dato all'imperatore il controllo dell'Italia); infine una Meditazione sulla passione di Cristo, già nota e di incerta attribuzione. Tutto qui, o poco più.
A prima vista, ma soltanto a prima vista, non era e non resta facile lasciarsi invischiare più di tanto dallo scarno involto dei Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, che è andato ad aggiungersi ad una congerie ormai sterminata di "carte" e di saggi dedicati ad un unico tema: la storia della più famosa e controversa corrente riformatrice operante in seno alla Chiesa romana nell'epoca del protestantesimo nascente. Gli "spirituali", per l'appunto.
Certo, l'indubbio arricchimento dell'epistolario scambiato fra due grandi personalità come il cardinale d'Inghilterra e la Colonna (finora si erano salvate solo due lettere in andata e una di ritorno) non è cosa di tutti i giorni. Lei, la divina del Rinascimento italiano, finalmente a colloquio con uno dei volti più enigmatici dell'Europa cinquecentesca. Non negligibile davvero. E se poi il principe distaccato e la nobildonna dei sonetti incantevoli risultano anche gli ispiratori di un tentativo di avvicinamento della religiosità cattolica a quella di Lutero, la cosa è per forza interessante. Tanto più che i manoscritti in questione non sono usciti da un archivio qualsiasi. Al contrario giacevano ignorati all'interno di un quinterno riposto ab immemorabili tra i faldoni segnati Stanza Storica (Eldorado sino a ieri inattingibile per i comuni studiosi mortali) dell'Archivio del Sant'Uffizio, oggi Congregazione per la dottrina della fede. E a dire il vero una qualche curiosità, visto che l'edizione porta le insegne del Vaticano, la solletica anche quel discreto stillicidio di inediti che la Santa Sede lascia piovere di quando in quando dalle volte dei suoi arcani.
Tuttavia, comprendere il motivo di tanto interesse rispetto all'entità del materiale riaffiorato (o, se si vuole, riuscire a scovare in se stessi le ragioni per immergersi in quei minimi echi, poco più che fruscii del passato) richiede tempo per riflettere e disponibilità a farsi attrarre all'interno di un percorso dalle tracce dissimulate, tutto da interpretare e, passo dopo passo, da immaginare.
Perché, presi per sé stanti, indipendentemente dal contesto, i fogli vergati con scrittura tormentata, reticente, allusiva, asprigna dalla celebre poetessa romana, nota al secolo come marchesa di Pescara, non contentano. Obbligano il lettore ad uno sforzo di comprensione che spesso non lo ripaga del desiderio di percepire una presenza che si intuisce e tuttavia sfugge, come immagine intravista sotto l'increspatura dell'acqua. Comportano la frustrazione - scrive con efficacia Concetta Ranieri, curatrice dell'edizione insieme a Sergio Pagano - "di cadere nelle vischiosità e nelle incertezze delle corrispondenze di Vittoria Colonna, le cui lettere sono e non sono nello stesso tempo un "libro" sconvolgente per ricchezza e varietà, per povertà e monotonia di temi, per l'evasività e per la riservatezza che crescono sempre più quando la Colonna fa un uso fastidioso di giri di frasi lambiccato, nelle quali la parola serve a mascherare se non a rendere volutamente oscuro il pensiero". (Da coprire invece decisamente con un velo l'opinione del Foscolo, per il quale, in fatto di prosa, fra la moglie di un rustico fattore e la marchesana di Marino non passava poi troppa differenza).
Per carità, nessuno sarà mai comunque così insensibile da non saper respirare l'afflato e la passione disseminati nelle lettere redivive di Vittoria, che al primate d'Inghilterra non riesce a celare i sintomi di una dipendenza religiosa ed emotivamente fin troppo scoperta insieme: "...quell'odor di Cristo che porta Vostra Signoria Reverendissima nella sua viva voce non si po' sentir da lontano...", scrive la marchesa più che cinquantenne, inconsapevole di poter creare ancora, nel suo odierno lettore, una punta di imbarazzo.
Anzi, a leggere e rileggere, nella pur esigua quantità di scrittura riemersa dai secreta del S. Uffizio ci si accorge di scoprire una storia completa di sentimenti, un breve arco esistenziale con un avvio, un apogeo e un ripiegamento, in cui la signora, sfidando lo stereotipo, appare la più debole, la più disarmata. Iniziatasi con premurosi accenti materni (Pole è più giovane di otto anni) e solo apparentemente serena nell'abbandono religioso, la corrispondenza non regge a lungo alla compressione dell'esuberante soggettività di Vittoria: "...niente desidero in questo mondo considerando il mondo - sembra consolarsi la nobildonna ammirata da Michelangelo, in un passo del Natale 1545 - et niente mi manca per sicurtà di goder quell'altro, considerando Cristo". Ma subito aggiunge: "Solo Vostra Signoria Reverendissima mi manca, sola lei desidero, perché continuo... mi aiutava a cognoscere me stessa, a humiliarmi...". Uno slancio eccessivo quello dell'autrice delle Rime? Probabilmente sì. Da altri passi apprendiamo che il cardinale ha diradato i suoi messaggi, che affetta di ignorare l'esistenza della marchesa, "et che - come ella stessa spiega - non vole metter olio al foco".
La reazione della donna all'altolà di Reginald, sospinto al riserbo dal fido amico e segretario, il patrizio veneziano Alvise dei Priuli, progenie di dogi e di banchieri, costituisce forse il momento più umano, più carico di simpatia, nascosto nel criptico carteggio. Ansiosa di confidarsi, di mettere al corrente il cardinale dei propri millimetrici progressi ("Sempre dico tutto il cor mio a Vostra Signoria Reverendissima, come a quello dirittissimo e sincerissimo ministro de' Dio che 'l vedo essere"), nel luglio del '46 Vittoria annuncia di avercela quasi fatta: ormai, anche se sta lontana dal Pole, la sua consolazione in Cristo è solo di poco inferiore rispetto a quando il cardinale si trova presente, o le scrive per confortarla nella fede, "et allora me ne vo' a Christo tutta sicura et tutta consolata et mi par di veder Vostra Signoria R.ma insiemi con quella divina bontà...".
Ma i temi della corrispondenza non si limitano davvero, com'è intuibile, alla sfera dei sentimenti. Solo una modesta perspicacia ci vuole per rintracciare fra le volute del sovrabbondante periodare l'espressione rivelatrice, la terminologia teologica con la quale la marchesa confermava "Al Reverendissimo et Illustrissimo monsignor... el cardinal de Inghilterra... legato del Concilio" di restar salda nella dottrina assai sospetta della giustificazione per fede, discretamente predicata dal Pole, padre spirituale suo e guida di quella ecclesia Viterbiensis così importante per la storia dei movimenti italiani di riforma. "Dio ha voluto per mezzo di Vostra Signoria stabilirme per fede felicissimo loco alla destra sua", si legge ad esempio nella lettera senza data del '44, mentre la meditazione sulla passione di Cristo argomenta: "Essendo solo la fede in Christo quella che veramente purifica il cuore...".
E difatti, non a caso - anzi, è questo l'elemento essenziale della storia del Quinternus litterarum quondam Illustrissimae Dominae Marchionissae Piscariae et aliarum - le scritture della poetessa, fitte di espressioni di dubbia ortodossia, sarebbero state requisite dal S. Uffizio nel 1568, ventun'anni dopo la morte dell'autrice, e più tardi ancora debitamente chiosate dalla penna dell'inquisitore, in vista di un possibile processo postumo a carico di Vittoria e di Reginald Pole. "Videtur asserere errorem de sola fide", annotò infatti il censore. E ancora: "per totam hanc litteram videtur negare charitatem infusam seu inhaerentem et ponere imputativam tantum".
Appetitosi indizi, a volersi immedesimare in certe ossessive psicologie inquirenti. Meritevoli senza dubbio di andare a rimpinguare ad abundantiam la cornucopia di riscontri già messi in bella fila nel Compendium processuum Sancti Officii Romae, il rinomato repertorio contenente un sunto dei risultati delle indagini avviate fin dagli anni Quaranta per tenere gli "spirituali" sotto controllo. Annotato con cura minuziosa intorno al 1566, costruito con il metodo delle testimonianze incrociate, il Compendium sarebbe finito sotto il ciglio degli scholars solo verso la fine del secolo scorso. In esso venivano registrate le evidenze accusatorie tratte da deposizioni a carico e brani di lettere sospette. Tutto ovviamente nel segreto e senza riguardi per nessuno. Ospite di prima grandezza, la "marchionissa Piscariae" vi compariva più e più volte nella parte di "filia spiritualis et discipula cardinalis Poli haeretici... et complex illius et aliorum haereticorum". Per converso, monsignore, alquanto protervo, risultava nientemeno aver sedotto la signora nelle cose dello spirito. Decisamente in rotta con la fortuna, Giovanni Morone, il cardinale milanese vicinissimo al Pole, si era visto incarcerato e processato, poi rilasciato, tra il '57 e il '59, regnante Paolo IV Carafa, sulla base degli indizi raccolti (il Compendium riguardava difatti proprio lui per primo, minacciato da una ripresa del processo).
Ora, dopo il sequestro del Quinternus disposto da Pio V, gli accenti infervorati di Vittoria, a sicuro dispiacere, peraltro post mortem, di "Aloisius Priolus venetus... complex haereticus", venivano a riversare altro combustibile sulla fiamma.
Eppure, malgrado i delicati spunti emozionali, malgrado la conferma degli "errori" dottrinali della marchesa e della profonda affinità spirituale con il Pole (due temi sui quali gli storici hanno fatto correre rivi d'inchiostro), non sono questi gli aspetti che più, per così dire, intrigano chi abbia la pazienza e la voglia di soffermare lo sguardo sulle due tormentate personalità cinquecentesche e sulle tracce indecifrabili lasciate all'interno del Quinternus. L'interesse maggiore che induce a concentrarsi attorno agli esigui manoscritti e che, con l'addentrarsi nella trama e nella ricostruzione degli intrecci, si fa sottilmente sempre più avvincente non sta cioè nell'approfondimento delle specificità psicologiche di Vittoria, né di chi fu da lei, insinuazione da inquisitore, "unice dilectus ac nimio affectu ac reverentia adamatus". E nemmeno nell'accertamento definitivo delle loro posizioni teologiche, soprattutto quando una ricerca del genere venga compiuta (il rilievo non pecca di originalità, ma resta disgraziatamente ancora attuale) con il segreto desiderio di ascriverne le anime in maniera conclusiva vuoi all'ortodossia romana, vuoi al campo protestante.
Il problema ancora impalpabile, quello più denso di significato storico che si impersona nelle figure guida della corrente di spiritualità cattolica più vicina alla Riforma, di cui Vittoria e il cardinale inglese furono autorevoli, ma non certo unici esponenti, ruota attorno, anche dal punto di vista religioso, ad un asse diverso. Gravita misteriosamente lungo le orbite dell'enorme dimensione "pubblica" di tutte quelle figure, della loro appartenenza al cuore dell'establishment politico-religioso europeo tardorinascimentale, delle ragioni che le spinsero ad operare insieme e, infine, intorno ai "limiti" entro i quali si trovarono a muovere. È questo, difficile negarlo, il fascino profondo che promana dal concentrato inscindibile di elevatezza culturale, propria di una raffinatissima élite; di potenza sociale; di tormentatissima esperienza politica e di potere condotta in prima persona e ai massimi livelli; di partecipazione ai fastigi della dignità ecclesiastica, e di contemporanea, intima, incontenibile aspirazione a una riforma religiosa dai contenuti oggettivamente destabilizzanti; di epocale incertezza sui propri destini, spesso sorprendentemente intrecciati, che pesa sulle spalle di ognuna di quelle figure.
Proprio in una visione complessiva, solo nel desiderio di giungere al capo del "nodo" rappresentato dall'itinerario politico-religioso dei Pole, dei Morone, dei Colonna e di molti altri ancora, trova una ragione convincente la ricerca dei fili dispersi e nascosti. Allora sì vale la pena di chiedersi perché mai gli "spirituali" siano stati considerati materia superbamente appetibile per i giudici dell'Inquisizione romana, il tribunale ecclesiastico istituito nell'estate del 1542 e mobilitatosi da subito ai loro danni.
E la riprova sta nel fatto che l'importanza del movimento riformatore, con l'eccezione, in parte rimeditata, del maestro Juan de Valdés, non può esser tanto individuata nel valore, per così dire, assoluto del messaggio, nella caratura dei contenuti dottrinari, seppur non privi di un'iniziatica originalità. Ad attirare l'attenzione è in primo luogo la tenacia del ruolo svolto, da posizioni privilegiate nella Curia (o a latere di questa), per una riforma della Chiesa e per la ricerca di una complessa mediazione con le correnti innovatrici italiane, con la massa egemonica ispano-imperiale e con le forze politico-religiose d'Oltralpe. Mediazione che aveva sullo sfondo un riassetto generale dei rapporti tra sfera religiosa e sfera temporale nell'intero quadro europeo e in Italia in particolare. Il notissimo episodio del legato tridentino Pole, che trova il modo di non sottoscrivere il controverso articolo sulla giustificazione, mostra l'ampiezza del raggio visivo dell'uomo, prima ancora che la sua possibile eresia.
Qui sta il nocciolo, ai cultori del resto non ignoto, di una vicenda dalla quale, per quanto indagata al microscopio, si diramano sempre, invariabilmente, vastità inesplorate. Tanto inesplorate, o almeno non ancora abbastanza collegate fra loro, che a tutt'oggi buona parte dei segreti di cui fu intessuta l'epopea "spirituale" (un "mal misterio", nella convinzione degli avversari) non risulta ancora pienamente scalfita: non dipanata la ragnatela degli interessi che strinsero i protagonisti l'uno all'altro, non quella dei loro rapporti con il mondo esterno (reticolo enorme, adeguato alla dimensione dei personaggi). E neanche ben descritto il parallelogramma delle forze che sgretolarono progetti pur fondati su risorse sociali e sostegni politici di primaria grandezza.
Un intero continente, insomma, fitto di zone incognite, alla miglior conoscenza del quale non si vede proprio, o almeno non di primo acchito, come i pochi, intricati foglietti di carta scarabocchiati da Vittoria Colonna e capitati per caso sotto gli occhi possano portare qualche luce aggiuntiva. Anzi, a dirla sinceramente, i fervidi ricami della marchesa, cespuglio di pomi allusivi e di screziature fra dico e non dico, qualora affrontati alla leggera, non fanno che incoraggiare il disagio, lo smarrimento. Tant'è vero che questa riflessione, una volta data la prima, la seconda, la terza scorsa, non se l'è sentita di immergersi di nuovo, evidentemente a freddo, fra i resuscitati sospiri della nobildonna. Si è posta piuttosto l'obiettivo di una visitazione complessiva e, per così dire, ragionata della vicenda "spirituale", allo scopo di chiarire un po' meglio, prima di tutto a se stessa, parecchi dettagli propedeutici. E dopo, ma solo dopo, di attendere alla decifrazione di cosa mai intendesse significare la marchesa di Pescara al suo amatissimo Pole.
Nel far questo, il saggio non disporrà comunque dell'energia necessaria per inoltrarsi tutto solo in terre vergini e in indagini sistematiche al livello del suolo. Non si addentrerà, cioè, salvo eccezioni, tra il fogliame debordante degli archivi, all'incerta ricerca di scoperte risolutive. Né si calerà in una sorta di maratona narrativa, per ricostruire fedelmente, giorno dopo giorno, le tormentate peripezie degli "spirituali" dai mille interlocutori: ambedue le avventure risulterebbero troppo pretenziose. Rischierà piuttosto l'impresa, già in sé non disprezzabile, di sorvolare l'imponente paesaggio a mezza altezza, un quadrante tematico di seguito all'altro, lo sguardo puntato sui minimi particolari (e di nero su bianco sull'argomento ne esiste un vero brulichio) per riannodare antichi percorsi e connessioni. Solo a quel punto troverà l'ardire di rispondere alle sottili, sibilline provocazioni che la poetessa di Marino, da una distanza ben superiore ai quattrocento anni, ha fatto un giorno riemergere dal Quinternus. E alle quali non è stato proprio possibile sottrarsi.
Lungo la rotta si presenterà sicuramente l'occasione per accennare en passant (con ipotesi di soluzione accluse) a taluno degli innumerevoli grovigli interpretativi lasciati in eredità dagli "spirituali" ad ammiratori e studiosi delle epoche successive. Soprattutto a quelli dei nostri anni, che dal fascino di Reginald Pole e dei suoi fratelli di fede appaiono decisamente ammaliati. [...]
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