Dai limiti allo sviluppo, allo sviluppo sostenibile
Intervento del Prof. Raimondo Cagiano de Azevedo alla Conferenza Internazionalea cura di Rachele Rutili
Alle soglie del nuovo millennio è possibile tracciare un quadro dell’evoluzione che ha avuto la discussione in materia di sviluppo negli ultimi decenni, per cercare di farne una valutazione e di individuare quei mutamenti che hanno avuto effetti profondi nell’ambito della didattica, della tecnologia di trattamento dei dati e, in generale, del modo di vedere i problemi.
Analizzeremo, quindi, i momenti principali del dibattito scientifico e culturale sul tema dello sviluppo - in particolare quello economico - dal periodo postbellico fino ai nostri giorni.
Nel mondo occidentale, il periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale è stato dominato dalla ricostruzione, intesa sia nel senso più materiale della parola che nel senso di riorganizzazione del tessuto sociale ed istituzionale. A livello nazionale è stato ricostituito l’assetto politico ed amministrativo di Regioni, Provincie e Comuni; a livello internazionale si è assistito alla nascita del Consiglio d’Europa, della CECA, del Mercato Comune, dell’OCDE e delle Agenzie delle Nazioni Unite.
E’ interessante notare che queste implicazioni di ordine istituzionale, dopo la caduta del muro di Berlino, si stanno riproducendo in tutto l’Est europeo con le stesse caratteristiche; non è difficile prevedere che nei prossimi vent’anni si produrranno anche in molti Paesi dell’area mediterranea, come il Maghreb, l’Egitto e la Siria.
Oltre alla ricostruzione di tipo istituzionale, il dopoguerra è stato caratterizzato anche dal processo di sviluppo del sistema economico: la modernizzazione della produzione agricola, la robotizzazione nelle industrie, l’evoluzione del sistema terziario, infatti, sono fenomeni che hanno avuto il loro epicentro proprio negli anni Sessanta.
Il riassetto rapido e completo in senso moderno dell’intero sistema politico, economico e sociale dell’occidente a fatto sì che si parlasse di "miracolo economico" e che si creasse un’atmosfera di grande euforia e fiducia nel progresso.
Nei primi anni Settanta, invece, maturò la consapevolezza delle distorsioni che l’esplosione economica stava introducendo nel sistema; iniziarono le contestazioni studentesche, la critica diffusa contro la società dei consumi, il terrorismo. Questo clima di paura venne alimentato da una serie di fattori: i cambiamenti climatici, la minore disponibilità di risorse alimentari per effetto della desertificazione e della saturazione delle terre coltivabili, l’aumento dell’inquinamento, la prospettiva di un rapido esaurimento delle risorse. L’ultimo "baby boom" della storia d’Europa, contribuì anch’esso ad incrementare i timori circa la limitatezza delle risorse, rispetto ad una popolazione in forte crescita; in realtà si trattava di una piccola parentesi all’interno di un trend di lungo periodo che era, invece, di tipo deflativo (contrazione demografica).
Le analisi scientifiche condotte verso la fine degli anni Sessanta confortavano il panorama negativo che veniva delineandosi; in particolare, ebbero molta risonanza a livello internazionale gli studi effettuati dal Club di Roma, un gruppo di illustri scienziati, nato per iniziativa di Aurelio Peccei, che si avvaleva delle più moderne tecniche informatiche. Il rapporto finale del Club di Roma, pubblicato con il titolo "I limiti allo sviluppo" nel 1969 dal MIT (Massachusetts Institute of Technology) evidenziò i cinque elementi cardine della crisi del sistema mondiale: l’esplosione demografica, il problema dell’alimentazione, l’esaurimento delle risorse ed il conseguente declino dell’industria, l’inquinamento. Tale rapporto ebbe un impatto enorme nel mondo politico e culturale dell’epoca, dove prese piede l’idea dei limiti allo sviluppo e della "crescita zero", un’idea presto confortata dalla crisi dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale, verificatasi nel 1974.
In quegli anni le grandi conferenze delle Nazioni Unite si adoperavano per trovare soluzioni al problema: alla Conferenza sulla Popolazione tenutasi a Bucarest nel 1974, ad esempio, si aprì un animato dibattito circa la necessità di agire sulla leva demografica per allentare la pressione sulle risorse, in un’ottica di tipo malthusiano.
In sintesi, se gli anni Sessanta furono caratterizzati da un’euforia generalizzata per il rinnovato benessere, gli anni Settanta vennero dominati dalla 'disperazione' provocata dall’ipotesi della crescita zero. Queste due fasi, succedutesi così a breve termine l’una dall’altra, lasciarono dietro di loro una scia lunghissima di questioni, che si potrebbero ricondurre ad un’unica espressione: il disequilibrio nord-sud.
Tale disequilibrio, in realtà, non è una prerogativa della seconda metà del ventesimo secolo, ma sicuramente ne costituisce un aspetto particolarmente significativo; sia a livello mondiale che nei singoli Paesi i rapporti economici erano caratterizzati da profonde disuguaglianze, molto più stridenti di quelle esistenti prima della seconda guerra mondiale. I movimenti pacifisti e per lo sviluppo che si registrarono in quegli anni nacquero proprio con lo scopo di sensibilizzare le coscienze di fronte alla povertà, alle carestie, alle epidemie ed alla fame nel mondo. Vennero creati in questo periodo i Fondi delle Nazioni Unite per lo Sviluppo e per la Popolazione, che avevano come compito principale quello di vigilare sulla riduzione degli squilibri fra le popolazioni del mondo.
Gli stessi Governi dei Paesi sviluppati si posero il problema della ripartizione delle risorse, dando inizio al lungo dibattito sugli aiuti allo sviluppo. Inizialmente si impose la teoria di McNamara, allora Segretario di Stato degli Stati Uniti, che sosteneva la tecnica dell’aiuto puro e semplice. Nella logica dei blocchi che in quei tempi dominava lo schema politico e militare, tale aiuto veniva fornito soltanto ai Paesi alleati. Poteva essere rappresentato da interventi di emergenza, come il trasferimento di risorse alimentari in caso di siccità o carestie, oppure da interventi di più ampio respiro, come la consulenza in campo istituzionale, strategico o politico-militare.
Nell’ambito di questo approccio, un altro strumento per l’aiuto allo sviluppo era rappresentato dalla cooperazione, sia bilaterale (in particolare fra Paesi con legami post-coloniali) che multilaterale; proprio con questo scopo nasce anche in Italia la Direzione Generale per la Cooperazione alla Sviluppo. Per quanto riguarda la cooperazione multilaterale, questa viene gestita dalle Agenzie delle Nazioni Unite, che si occupano di raccogliere le risorse dei Paesi Donors e distribuirle ai Paesi Recipients, secondo le necessità di ciascuno; in realtà anche questo tipo di cooperazione è bilaterale, in quanto i vari Paesi vogliono in ogni caso conoscere i beneficiari degli aiuti da loro forniti.
Dopo alcuni anni, questa concezione dell’aiuto allo sviluppo si dimostrò incapace di risolvere i problemi dei Paesi sottosviluppati e, anzi, li aggravò notevolmente. Infatti, se alcuni Paesi hanno beneficiato del loro inserimento nel sistema di sviluppo dei Paesi ricchi, iniziando così il take off economico, altri sono diventati ancora più poveri. Alcuni esempi del primo caso sono dati dalla Corea, entrata nel sistema di sviluppo del Giappone, la Malesia e la Tailandia, entrate in quello degli Stati Uniti, ed infine i Paesi del Maghreb e la Turchia, facenti parte del sistema di sviluppo dell’UE (allora Comunità Europea); esempi del secondo caso, invece, sono dati da Siria, Egitto, Mauritania, Ciad e Libia, che sono andate declinando fatalmente verso condizioni di povertà alle soglie della sopravvivenza umana.
Se a questo si aggiunge il permanere di zone quali il Bangladesh e il Pakistan in Asia, l’Uganda e lo Zaire in Africa, allora ai comprende come, malgrado le teorie di McNamara e la cooperazione internazionale, la distanza fra Paesi ricchi e Paesi poveri diventava sempre più profonda e inaccettabile.
Per questo motivo, a metà degli anni Ottanta, si diede inizio ad un grande ripensamento in relazione a questo tipo di approccio dell’aiuto allo sviluppo. Un elemento cardine di tale ripensamento fu la Conferenza Mondiale tenutasi a Città del Messico nel 1984. Molta risonanza ebbe anche il rapporto presentato per il Club di Roma dal Premio Nobel per l’economia, l’olandese Jan Tinbergen: "Il progetto RIO" (Reshiping International Order). Cominciò così l’epoca del nuovo ordine economico internazionale, che avrebbe portato ai dibattiti odierni sulla cooperazione allo sviluppo.
Il nuovo ordine economico internazionale aveva come assioma di partenza l’insufficienza del mero trasferimento di risorse da un Paese ricco ad uno povero. Si affermava, invece, la necessità di concorrere, insieme, alla determinazione da una parte delle priorità nello sviluppo, e dall’altra dell’entità delle risorse disponibili per l’aiuto. Il problema chiave riguardava non tanto il secondo aspetto, quanto il primo: fare in modo che venissero stabilite delle priorità all’interno di una strategia di sviluppo.
Le enquires svolte dalle Agenzie delle Nazioni Unite per rilevare le priorità dei Governi dei PVS (Paesi in Via di Sviluppo) diedero risultati strabilianti: al primo posto c’era la salute, seguita dall’analfabetismo, la fame, le istituzioni e, solo al quinto posto, il family planning.
Il nuovo corso della cooperazione internazionale creò notevoli contrasti all’interno delle Nazioni Unite, in quanto non tutti i Paesi ricchi accettarono la compartecipazione strategica dei Paesi poveri sull’uso delle risorse donate; la prima conseguenza negativa fu la riduzione di tali flussi di risorse. Secondo i Paesi Donors, infatti, la cooperazione doveva fondarsi sul principio che nessun intervento di aiuto allo sviluppo potesse essere in contrasto con i loro interessi.
Successivamente, attraverso una serie di raccomandazioni delle Nazioni Unite, questo nuovo tipo di cooperazione si impose a livello internazionale, anche se ancora oggi non è perfettamente accettato nella mentalità collettiva delle popolazioni dei Paesi ricchi.
All’inizio degli anni Novanta questi cambiamenti assunsero gradualmente la connotazione di "sviluppo sostenibile", un’altra etichetta, nata nella Conferenza Mondiale di Rio de Janeiro del 1993 e successivamente affermata in quella del Cairo (1994). Lo sviluppo sostenibile era un principio da applicare sia ai Paesi ricchi che a quelli poveri: per i primi comportava il fatto che questi donassero soltanto ciò che potevano, in relazione ai propri bisogni interni; per i secondi implicava la necessità di ricevere soltanto aiuti effettivamente validi, in relazione alle condizioni di sviluppo e alle specificità di ciascun Paese.
L’idea dello sviluppo sostenibile è stata, in un certo senso, un 'cavallo di Troia', che ha consentito di fare un altro passaggio importante nel dibattito sullo sviluppo: la cooperazione decentralizzata. Affermatasi nella Conferenza di Barcellona del 1996, la cooperazione decentralizzata è un tipo di cooperazione realizzata in modo tale da verificare immediatamente l’impatto sulle zone di origine degli interventi di aiuto. Questo passaggio è stato importante per molte ragioni: mentre prima ci si poneva il problema del sottosviluppo soltanto dal punto di vista dei Paesi ricchi, destinatari dello stesso, per la prima volta si pone l’attenzione sulle sue origini. Il secondo cambiamento importante è dato dal fatto che, per fare questo tipo di operazione, non è più sufficiente né la dimensione internazionale né quella nazionale, ma deve intervenire la dimensione locale. Questo perché il sindaco, o il responsabile di una determinata area, è il soggetto più idoneo a valutare i risultati effettivamente ottenuti dagli interventi di cooperazione, essendo più vicino ai problemi legati al sottosviluppo; in Italia alcuni esempi si sono avuti a Brindisi, Mazara del Vallo, Crotone e Marsala.
La cooperazione decentralizzata permette di avvicinarsi maggiormente alle radici del sottosviluppo e quindi di comprendere meglio anche le ragioni che spingono le popolazioni dei PVS ad emigrare: nei Paesi più poveri si tratta di una vera e propria necessità di sopravvivenza; per le popolazioni di quelli un po’ più sviluppati, invece, la decisione di emigrare nasce dal desiderio di realizzare un progetto di vita, che può consistere in un’istruzione migliore, un maggiore grado di benessere o di qualità della vita. La formulazione di simili progetti si può ritrovare, con contenuti diversi, anche nei Paesi più ricchi, in quanto si tratta di una forma di sottosviluppo comune a tutte le società.
Negli ultimi anni l’approccio culturale alla concezione dello sviluppo umano ha subito un’importante evoluzione, sia a livello nazionale e locale che a livello personale: tutto lascia pensare, tuttavia, che ci saranno ulteriori cambiamenti, ai quali è necessario guardare con la maggiore apertura possibile.