via per uscirne non sembra il liberalismo estremo, che certa stampa anglosassone raccomanda per esempio ai giovani francesi, oppressi dai corporatismi degli apparati burocratici ed economici nazionali.
In realtà, il Manifesto mostrava una grande preveggenza. Sconsigliava già allora i sindacati dalle pratiche parassitarie che poi avrebbero innescato reazioni eccessive in senso contrario. Metteva in guardia dagli squilibri nelle retribuzioni fra le diverse categorie di lavoratori (propongo che agli insegnanti italiani si offra la possibilità di lavorare per un anno come commessi della Camera, con relativo stipendio). Invocava una politica della scuola orientata a dare a tutti le eguali opportunità di partenza, non le selezioni brutali che si applicano sugli studenti di certe università, con il risultato di creare moltissimi spostati e nemici della società. Non escludeva le nazionalizzazioni, pur mettendo l'accento sull'iniziativa privata. Soprattutto affermava l'idea che già allora l'economia aveva abbastanza risorse per dare da mangiare e da dormire a tutti, senza che nessuno dovesse piegarsi al servilismo e all'abiezione per il posto di lavoro.
La soluzione sta probabilmente nel senso indicato dal Manifesto: è sempre l'uomo a esser padrone del suo destino. E' il suo spirito critico, non l'aquiescenza alle leggi superiori dell'economia, la cosa migliore del nostro tempo e che non dovremmo perdere. Da cui la necessità, già chiara in quelli di Ventotene, che ci fossero donne e uomini comuni, non di gnomi insediati nelle stanze dei bottoni, intenzionati a riacquistare con l'intelligenza e il senso di responsabilità il controllo del proprio futuro.
Una nuova carta della cittadinanza europea è indispensabile per rimettere le
idee in ordine, partendo da criteri di equità per tutti, non cercando di
redistribuire le briciole dopo che i forti hanno trattenuto per sé i
cosiddetti diritti acquisiti, che sono la codificazione dell'ingiustizia.
Diritti di tutti, salario minimo garantnomico. E' evidente che ogni paese e ogni gruppo di paesi affini si manifestano in funzione delle proprie caratteristiche e delle proprie basi di partenza, ma è altrettanto evidente che gli esempi anche lontani devono essere analizzati: non per adottarli passivamente, che non è mai possibile, ma per comprenderne i caratteri e le implicazioni.
Un tempo erano gli europei ad avere una visione mondiale degli affari economici o politici e strategici. Indubbiamente l'hanno perduta o almeno ridotta: l'eurocentrismo, un tempo giustificato dai fatti, ora non ha più ragion d'essere. Ma i tassi dello sviluppo economico, che si misurano di anno in anno, sono più veloci dei tassi dello sviluppo culturale, che si misurano a secoli.
Alessandro Corneli. Collaboratore del Sole 24 Ore. Autore, nel 1988, del volume L'era del Pacifico (Edizioni il Sole 24 Ore).
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